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E' poi da notare l'attenzione per il particolare dimostrata in questi rilievi, dove i nemici, e i loro alleati, sono di volta in volta presentati con gli attributi che ne caratterizzano inequivocabilmente l'ethnos, a differenza del fregio del pilastro delfico di Emilio Paolo prima ricordato. I Daci, infatti, combattono con la sica, una spada ricurva dal lungo manico[44], indossano un tipico berretto conico e portano i capelli acconciati con una crocchia sulla tempia destra. Questi dettagli si spiegano sicuramente con il desiderio di non lasciare alcun dubbio circa la natura etnica dei nemici[45]. Altrove, però sempre nell'ambito dell'arte ufficiale, gli avversari sono rappresentati in modo molto meno preciso, secondo un modello sommario di "orientale". Così, ad esempio, nei rilievi che illustrano le campagne mesopotamiche dei Severi sull'Arco di Settimio Severo nel Foro Romano, peraltro di lettura più difficile rispetto alle chiare rappresentazioni della Colonna Traiana, a causa del cattivo stato di conservazione ma anche, indubbiamente, del maggiore affollamento delle scene figurate, che seguono generici schemi di battaglia ancora di derivazione ellenistica[46]. Non erano d'altronde caratterizzate in maniera molto puntuale, dal punto di vista etnico, nemmeno le personificazioni di province che l'arte pubblica aveva continuato a impiegare durante il II secolo d.C., come dimostra un'importante serie di personaggi femminili che appartenevano alla decorazione architettonica dell'Hadrianeum, il tempio che Antonino Pio aveva dedicato, a Roma, al predecessore Adriano divinizzato. In passato si riteneva solitamente che queste figure decorassero i plinti delle colonne interne della cella, inframmezzate a rilievi con trofei di armi negli intercolumni, ma ora sembra abbastanza convincente una diversa interpretazione, secondo la quale esse erano poste in opera all'esterno dell'edificio templare, precisamente nei portici che lo racchiudevano[47] (fig. 8). I personaggi superstiti, come si diceva, non mostrano fra loro profonde diversità, tanto che l'identificazione dei territori simboleggiati è assai controversa, e solo per alcuni di essi può essere abbastanza sicura; in ogni caso, solo gli attributi possono fornire indicazioni, perché qualunque caratterizzazione di tipo strettamente etnico è assente[48]. Del resto non si può nemmeno essere sicuri che siano rappresentate proprio le province, intese come unità amministrative, di cui si componeva l'impero all'epoca di Adriano. Forse si tratta piuttosto delle personificazioni dei diversi ethne che erano compresi nella compagine statuale romana, come le nationes del complesso pompeiano prima ricordato, senza che si debba pensare a uno stretto legame con la divisione provinciale[49]. Qualunque fosse la reale collocazione di queste sculture all'interno del santuario consacrato al Divo Adriano, il valore in esse contenuto è indubbio: il buon governo del principe defunto, alla cui politica Antonino Pio si voleva direttamente richiamare, come dimostrano alcuni atti iniziali del suo regno[50], è causa e nello stesso tempo risultato della floridezza di tutti i territori dell'impero. E' interessante rammentare che anche in età moderna la propaganda dinastica non tralascerà rappresentazioni di questo genere, allo scopo di sottolineare la prosperità, reale o presunta, del paese governato. Così, a puro titolo di esempio, nel soffitto della Sala del Trono al primo piano del Palazzo Reale di Napoli, si possono vedere quattordici figure femminili in stucco dorato, che simboleggiano le province in cui si divideva il Regno delle Due Sicilie e che non possono fare a meno di ricordare, pur nella diversa iconografia, le personificazioni antoniniane[51]. Tornando alle immagini di stranieri, si potrebbero aggiungere altri esempi, come il frequente schema dei prigionieri incatenati, di cui un rilievo di Magonza offre una testimonianza particolarmente impressionante[52] (fig. 9). Ma, nel complesso, non si apporterebbero molti elementi nuovi rispetto a quelli finora messi in luce. Il dato di certo più evidente, che emerge dall'esame di queste rappresentazioni nell'arte romana, è che esse appaiono di norma finalizzate, in un modo o nell'altro, a esaltare la potenza romana, quasi fosse una necessità voluta dal fato. Nemici sconfitti, personificazioni dei territori conquistati, barbari mitologici: queste diverse raffigurazioni concorrono tutte alla glorificazione del vincitore, perché solo per tale scopo, in ultima analisi, sono utilizzate. Perciò è molto difficile trovare illustrati la vita, i costumi, le abitudini dei popoli stranieri; non compaiono mai soggetti che attestino interessi etnografici, quali invece avevano manifestato molti scrittori greci in monografie, o in digressioni all'interno di opere più vaste, appositamente dedicate non solo alla storia, ma anche agli usi di altri popoli. Dove compaiono, nel panorama della produzione artistica di età romana, scorci di umanità delle popolazioni barbare, questi si possono comunque spiegare sempre nell'ottica della conquista, come le genti deportate che, insieme ai loro animali, si incamminano verso un incerto futuro nell'ultima scena della Colonna Traiana[53]. Tutto questo non si deve pensare che avvenga soltanto nel campo dell'arte ufficiale, la quale è per definizione dipendente da canoni contenutistici e rappresentativi che non possono lasciare dubbi negli osservatori. I medesimi temi, infatti, sono reperibili anche nella sfera individuale dei cittadini che abitavano l'orbe romano, quasi fossero stati "privatizzati". Così, a impersonare semplici immagini di lutto, si incontrano frequentemente figure di barbari afflitti, secondo uno schema già presente in alcuni monumenti pubblici provinciali, agli angoli dei sarcofagi decorati a rilievo, sempre più diffusi nel corso del II secolo d.C.; di norma il motivo è in relazione con affollate scene di combattimento che si dipanano sulla fronte della cassa, come nel cosiddetto "sarcofago di Portonaccio", risalente al 190 d.C. circa[54] (fig. 10). Su scala ancora più piccola, schemi iconografici similari si ritrovano, e ciò non può stupire, nella decorazione degli equipaggiamenti dei soldati, come ad esempio una piccola targa in bronzo in origine rivestita di argento, raffigurante un trofeo con armi, ai cui lati si ergono due prigionieri barbari, come nel sarcofago appena citato[55]. Dunque non solo nell'ambito pubblico, ma anche in quello privato possiamo riconoscere lo stesso trattamento per i popoli stranieri, relegati in margine all'humanitas e presenti nell'arte solamente se funzionali all'esaltazione della potenza imperialistica di Roma. Certi monumenti funerari diffusi nelle province (ma bene attestati anche nell'Italia settentrionale), ornati da rilievi con episodi dell'esistenza di tutti i giorni, come scene ambientate all'interno di botteghe o nelle campagne (fig. 11), che anticipano le immagini di mestieri diffuse nel Medio Evo, non devono trarre in inganno. La vita quotidiana qui rappresentata non mostra alcun particolare che la possa differenziare da quella che si doveva condurre nel resto dell'impero, Italia compresa. Anzi, queste raffigurazioni erano scelte, di norma, allo scopo di testimoniare per quali mezzi la cittadinanza romana era stata ottenuta dai proprietari delle tombe, i quali rinunciavano così alla propria identità etnica, di fronte a tutti quelli che osservavano i loro monumenti, per dichiararsi anch'essi parte dell'immenso organismo statuale che aveva inglobato il loro paese.
Note: [1] L'Arco di Settimio Severo nel Foro di Roma, monumento che sarà citato anche in seguito, era stato dedicato dal Senato e dal popolo romano ob rem publicam restitutam imperiumque propagatum, come attesta l'epigrafe dedicatoria (CIL VI, 1033). [2] E' ad esempio significativo l'atteggiamento di Sesto Giulio Frontino, che fu curator aquarum, cioè supervisore degli acquedotti, nel 97 d.C., quando scrive che le grandiose opere idrauliche dei Romani erano ben più importanti delle piramidi egiziane e delle opere d'arte dei Greci, celebri ma inutili (De aquae ductu urbis Romae 16). [3] In generale sull'atteggiamento greco-romano nei confronti delle popolazioni straniere, e sui relativi riflessi nell'arte, sono da tenere presenti: Y.A. Dauge, Le Barbare. Recherches sur la conception romaine de la barbarie et de la civilisation (Collection Latomus 176), Bruxelles 1981; E. Demougeot, L'image officielle du barbare dans l'Empire romain d'Auguste à Théodose, in Ktema. Civilisations de l'Orient, de la Grèce et de Rome antique 9, 1984, pp. 123-143; E. Lévy, Naissance du concept de barbare, ibid., pp. 5-14 (nello stesso numero della rivista sono pubblicati altri lavori interessanti); R.F. Schneider, Bunte Barbaren. Orientalstatuen aus farbigen Marmor in der römischen Repräsentationskunst, Worms 1986 (specifico sulle statue in marmi colorati); J. Ostrowski, Les personnifications des Provinces dans l'Art romain, Varsovie 1990; E. La Rocca, Ferocia barbarica. La rappresentazione dei vinti tra Medio Oriente e Roma, in Jahrbuch des Deutschen Archäologischen Instituts 109, 1994, pp. 1-40; P. Liverani, "Nationes" e "Civitates" nella propaganda imperiale, in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Römische Abteilung 102, 1995, pp. 219-249 (che analizza molti monumenti); B. Cohen, Not the Classical Ideal. Athens and the Construction of the Other in Greek Art, Leiden-Boston-Köln 2000 (importante per le rappresentazioni di stranieri nell'arte greca, soprattutto pp. 313-479). [4] Vd. W. Helbig (a cura di), Führer durch die öffentlichen Sammlungen klassischer Altertümer in Rom II, Tübingen 19664, pp. 240-242, n. 1436 (H. von Steuben); M. Mattei, Il galata capitolino, in S. Moscati (a cura di), I Celti (Catalogo della Mostra, Venezia 1991), pp. 70-71; E. Polito, I Galati vinti. Il trionfo sui barbari da Pergamo a Roma, Milano 1999, pp. 72-85. [5] Vd. W. Helbig (a cura di), Führer durch die öffentlichen Sammlungen klassischer Altertümer in Rom III, Tübingen 19694, pp. 255-256, n. 2337 (W. Fuchs); B. Palma, L. de Lachenal, I Marmi Ludovisi nel Museo Nazionale Romano, in A. Giuliano (a cura di), Museo Nazionale Romano. Le sculture I, 5, Roma 1983, pp. 146-152, n. 64 (B. Palma); E. Polito, cit., pp. 58-71. [6] Così come fu formulata in A. Schober, Das Gallierdenkmal Attalos I. in Pergamon, inMitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Römische Abteilung 51, 1936, pp. 104-124. [7] In generale sul donario pergameno, e per altre ipotesi di ricostruzione, vd. F. Coarelli, Il "grande donario" di Attalo I, in I Galli e l'Italia (Catalogo della Mostra, Roma 1978), Roma 1978, pp. 231-255; R. Özgan, Bemerkungen zum Grossen Gallieranathem, in Archäologischer Anzeiger 1981, pp. 489-510; T. Hölscher, Die Geschlagenen und Ausgelieferten in der Kunst des Hellenismus, in Antike Kunst 28, 1985, pp. 120-136, specificamente pp. 120-123; H.-J. Schalles, Untersuchungen zur Kulturpolitik der pergamenischen Herrscher im dritten Jahrhundert vor Christus, in Instanbuler Forschungen 36, 1985, pp. 68-104; E. Polito, cit., pp. 23-43 (con ulteriore bibliografia). [8] Vd. G. Cipriani, Horti Sallustiani, Roma 19822; P. Grimal, I giardini di Roma antica, Milano 1990 (ediz. orig. Les jardins romains, Paris 19843), pp. 134-136; Lexicon Topographicum Urbis Romae, a cura di E.M. Steinby, vol. III, Roma 1996, s.v. Horti Sallustiani (P. Innocenti, M.C. Leotta); E. Talamo, Gli horti di Sallustio a Porta Collina, in M. Cima, E. La Rocca, Horti Romani (Atti del Convegno, Roma 1995), in Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma suppl. 6, 1998, pp. 113-169. [9] Dopo essere stati esposti al Museo Civico di Bologna, il fregio e il frontone che lo sormontava (raffigurante probabilmente la ierogamia di Dioniso e Arianna) sono stati trasferiti al Museo Nazionale delle Marche di Ancona, dove si trovano tuttora. Vd. M. Zuffa, I frontoni e il fregio di Civitalba nel Museo Civico di Bologna, in Studi in onore di Aristide Calderini e Roberto Paribeni, vol. III, Milano 1957, pp. 267-288; M. Verzár, F.-H. Pairault-Massa, Civitalba, in I Galli e l'Italia, cit., pp. 196-203; M. Landolfi, Il frontone e il fregio di Civitalba, in Marche 1990, pp. 9-13; Id., Le terrecotte architettoniche da Civitalba di Sassoferrato, in Ostraka 3, 1994, pp. 73-91, specificamente pp. 81-83. [10] Cic., De div. I, 37, 81; Liv. XXXVIII, 48. Cfr. anche Pol. II, 20, 6; 35; IV, 46, 1. [11] Vd. J. Formigé, Le Trophée des Alpes (La Turbie), Paris 1949; G.-Ch. Picard, Les trophées romains. Contribution à l'histoire de la Religion et de l'Art triomphal de Rome, Paris 1957, pp. 291-301; S. De Maria, Segni, cerimonie e monumenti del potere, in S. Settis (a cura di), Civiltà dei Romani. Il potere e l'esercito, Milano 1991, pp. 123-143, specificamente pp. 137-138. [12] CIL V, 7817. Ne parla anche Plinio il Vecchio, che riporta il testo dell'iscrizione (Nat. hist. III, 136-137). [13] Il precedente per questa realizzazione era stato un trofeo, probabilmente di forma analoga, innalzato da Pompeo sui Pirenei dopo la vittoria su Sertorio (72 a.C.). Non si conosce con precisione il luogo dove sorgesse e le uniche notizie a disposizione sono le scarne informazioni di Plinio (Nat. hist. III, 18; VII, 96; XXXVII, 15). Un altro notevolissimo monumento appartenente a questa tipologia, in gran parte sopravvissuto fino ad oggi col suo importante corredo scultoreo, è il trofeo eretto da Traiano ad Adamklissi, nell'attuale Romania, per ricordare una sua vittoria durante le guerre daciche, in un sito che aveva già visto una rovinosa sconfitta romana all'epoca di Domiziano. A differenza dei tumuli di Pompeo e di Augusto, non era sormontato da una statua, ma da un grande trofeo in pietra. Oltre alle opere già citate per La Turbie, vd. almeno F.B. Florescu, Monumentul de la Adamklissi. Tropaeum Traiani, Bucureşti 1961; J. Baradez, Le trophée d'Adamclissi témoin de deux politiques et de deux stratégies, in Apulum 9, 1971, pp. 505-522; L. Bianchi, Adamclisi. Il programma storico e iconografico del trofeo di Traiano, in Scienze dell'antichità 2, 1988, pp. 427-473. [14] L'iscrizione dedicatoria riporta la lezione praefectus ceivitatium (CIL V, 7231). [15] Il monumento risale agli anni 9-8 a.C. ed è tuttora conservato in ottimo stato. Vd. B.M. Felletti Maj, Il fregio commemorativo dell'arco di Susa, in Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia. Rendiconti 33, 1960-1961, pp. 129-153; S. De Maria, Apparato figurativo nell'arco onorario di Susa. Revisione critica del problema, in Rivista di Archeologia 1, 1977, pp. 44-52; J. Prieur, Les arcs monumentaux dans les Alpes occidentales. Aoste, Suse, Aix-les-Bains, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.12.1, Berlin 1982, pp. 442-475, specificamente pp. 451-459; L. Mercando, Riflessioni sul linguaggio figurativo, in Ead. (a cura di), Archeologia in Piemonte, II. L'età romana, Torino 1998, pp. 291-358, specificamente pp. 302-309. [16] Come un denario di Marco Durmio del 19 a.C. Vd. P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, Torino 1989 (ediz. orig. Augustus und die Macht der Bilder, München 1987), pp. 198-201. La restituzione delle insegne è ricordata da Augusto nelle Res gestae (29, 2) e da Svetonio (Aug., 21). [17] Vd. R.F. Schneider, cit., pp. 115-125; Lexicon Topographicum Urbis Romae, a cura di E.M. Steinby, vol. I, Roma 1993, s.v. Basilica Paul(l)i, pp. 183-187 (H. Bauer), specificamente p. 185. I precedenti greci per la soluzione qui adottata sono forse da riconoscere nella controversa porticus Persarum di Sparta e nella "Facciata dei Prigionieri" di Corinto, sulle quali vd. R.F. Schneider, cit., rispettivamente pp. 109-114 e 128-130 (per la seconda occorre citare anche l'importante H. von Hesberg, Zur Datierung der Gefangenefassade in Korinth. Eine wiederverwendete Architektur augusteischer Zeit, in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Athenische Abteilung 98, 1983, pp. 215-238). [18] Cfr. C. Nicolet, L'inventario del mondo. Geografia e politica alle origini dell'impero romano, Roma-Bari 1989 (ediz. orig. L'inventaire du monde. Géographie et politique aux origines de l'Empire romain, 1988), pp. 41 ss. [19] Vd. in proposito F. Coarelli, Il complesso pompeiano del Campo Marzio e la sua decorazione scultorea, in Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia. Rendiconti 44, 1970-1971, pp. 99-122 (ora in Id., Revixit ars. Arte e ideologia a Roma. Dai modelli ellenistici alla tradizione repubblicana, Roma 1996, pp. 360-381). [20] Suet., Nero 46, 1. Vd. P. Liverani, cit., pp. 244 ss. [21] L'unica testimonianza letteraria in proposito è un passo di Velleio Patercolo (II, 39, 2), che parla solo di tituli, fra i quali è sicuramente da porre l'epigrafe rinvenuta. Vd. C. Nicolet, cit., pp. 59-65; P. Liverani, cit., p. 221. [22] Vd. R.R.R. Smith, The Imperial Reliefs from the Sebasteion at Aphrodisias, in The Journal of Roman Studies 77, 1987, pp. 88-138; Id., Simulacra gentium. The Ethne from the Sebasteion at Aphrodisias, ibid. 78, 1988, pp. 50-77; Id., Myth and allegory in the Sebasteion, in Aphrodisias Papers. Recent work on architecture and sculpture, in Journal of Roman Archaeology suppl. 1, 1990, pp. 89-100; G. Bejor, Il culto imperiale e i suoi monumenti, in S. Settis (a cura di), Civiltà dei Romani. Il rito e la vita privata, Milano 1992, pp. 51-64, specificamente pp. 57-58; P. Liverani, cit., pp. 227-229. [23] La corazza raffigura un generale romano che riceve le insegne di Crasso dalle mani del re dei Parti. Basti qui citare l'analisi di P. Zanker, cit., pp. 201-205. [24] Il pezzo era stato reimpiegato, insieme ad un altro torso pure loricato, ma con la raffigurazione del Palladio troiano fra due danzatrici, in un tratto delle tarde mura urbiche, probabilmente non lontano dal luogo nel quale doveva trovarsi il foro cittadino. Per ragioni stilistiche, entrambe le sculture possono essere datate all'età tiberiana. Vd. L. Mercando, cit., pp. 315-316. [25] Aeschyl., Prometh. 803-806; Herodot. III, 116; IV, 13; Plin., Nat. hist. VII, 10; Pomp. Mela II, 1-2; Aelian., De nat. animal. IV, 27. In generale sull'iconografia del mito vd. Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, Supplementum, Zürich-Düsseldorf 1997, pp. 529-534, s.v. Arimaspoi (X. Gorbounova). [26] Lo stesso Augusto doveva peraltro ammettere che la pace universale era stata ottenuta per mezzo della guerra: cum per totum imperium populi Romani terra marique esset parta victoriis pax (Res gest. 13). [27] La bibliografia è molto vasta. Mi limito a segnalare alcuni lavori particolarmente importanti: G. Becatti, La colonna coclide istoriata. Problemi storici, iconografici, stilistici, Roma 1960; W. Gauer, Untersuchungen zur Trajanssäule, I. Darstellungsprogramm und künstlerischen Entwurf, Berlin 1977; G. Becatti, La Colonna Traiana, espressione somma del rilievo storico romano, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.12.1, Berlin 1982, pp. 536-578; S. Settis, A. La Regina, G. Agosti, V. Farinella, La Colonna Traiana, Torino 1988 (di cui utilizzo la numerazione delle scene, a sua volta ripresa dalla grande opera di C. Cichorius, Die Reliefs der Trajanssäule, Berlin 1896-1900); F. Coarelli et al., La Colonna Traiana, Roma 1999. [28] I Daci si procurano la morte per mezzo del veleno somministrato da uno di loro, che lo attinge da un recipiente (scena CXX; vd. S. Settis et al., cit., pp. 485-487, tavv. 227-229). Più avanti è mostrato anche il suicidio del re Decebalo, che si taglia la gola poco prima della sua cattura (scena CXLV; vd. S. Settis et al., cit., pp. 525-526, tavv. 267-268). [29] Cfr. R. Bianchi Bandinelli, Roma. L'arte romana nel centro del potere, Milano 1969 (con numerose ristampe), pp. 242-249; Id., La Colonna Traiana: documento d'arte e documento politico (o Della libertà dell'artista), in Dall'ellenismo al medioevo, Roma 19802, pp. 123-140, soprattutto pp. 136-137. [30] Cfr. le osservazioni di E. La Rocca, cit., pp. 3 ss., 22 ss. La tendenza a mostrare il nemico abbattuto dall'inclemenza della sorte, in una maniera atta a suscitare compassione e rispetto, trova comunque significativi precedenti nella storiografia di età ellenistica, rappresentata soprattutto da autori come Duride di Samo e Filarco, con la loro predilezione per le vicende biografiche e la psicologia dei personaggi descritti. Per i riflessi di questo atteggiamento nell'arte figurativa, ibid., pp. 28-29, e T. Hölscher, Il linguaggio dell'arte romana, Torino 1993 (ediz. orig. Römische Bildsprache als semantisches System, Heidelberg 1987), pp. 25-34. Un sentimento analogo è del resto espresso da sculture come i due Galati di Roma, citati all'inizio. [31] Vd. R. Bianchi Bandinelli, Roma..., cit., pp. 242, 310. [32] Plut., Aemil. 26, 8-12. [33] Ibid. 28, 4. [34] Vd. H. Kähler, Der Fries vom Reiterdenkmal des Aemilius Paullus in Delphi, Berlin 1965; F. Coarelli, La cultura figurativa, in Storia di Roma, II. L'impero mediterraneo, 1. La repubblica imperiale, Torino 1990, pp. 631-670, specificamente pp. 653-654; T. Hölscher, cit., p. 25. [35] Per un'interessante analisi delle fonti che rievocano le reiterate ostilità fra Greci e orientali, dalla spedizione contro Troia alle guerre persiane e oltre, vd. Gh. Ceauşescu, Un topos de la littérature antique: l'éternelle guerre entre l'Europe et l'Asie, in Latomus 50, 1991, pp. 327-341. [36] Vd. C. Nicolet, cit., pp. 79 ss. [37] Aug., Res gest. 25-33. Vd. C. Nicolet, cit., pp. 27-40 e passim. [38] Scena XXV. Vd. S. Settis et al., cit., p. 290, tav. 32. [39] Scena XLV. Vd. S. Settis et al., cit., p. 326, tav. 68. [40] Come dimostrano due teste mozzate e infisse su pali all'entrata di un accampamento romano (scena LVI; vd. S. Settis et al., cit., pp. 342-343, tavv. 84-85). [41] Per la resa della violenza nelle rappresentazioni artistiche di età romana, vd. il recentissimo P. Zanker, I barbari, l'imperatore e l'arena. Immagini di violenza nell'arte romana, in Id., Un'arte per l'impero. Funzione e intenzione delle immagini nel mondo romano, Milano 2002, pp. 38-62 (ediz. orig. Die Barbaren, der Kaiser und die Arena. Bilder der Gewalt in der römischen Kunst, in R.P. Seiterle, H. Breuninger [a cura di], Kulturen der Gewalt. Ritualisierung und Symbolisierung von Gewalt in der Geschichte, Frankfurt am Main 1998, pp. 53-86). Cfr. anche Id., Le donne e i bambini barbari sui rilievi della Colonna Aureliana, ibid., pp. 63-78 (ediz. orig. Die Frauen und Kinder der Barbaren auf der Markussäule, in J. Scheid, V. Huet [a cura di], La Colonne Aurélienne. Autour de la Colonne Aurélienne. Geste et image sur la Colonne de Marc Aurèle à Rome, Turnhout 2000, pp. 163-174). [42] Tali scene, coi relativi riferimenti, sono citate in E. La Rocca, cit., p. 31, nota 113. [43] Benché siano molto più tardi, i famosi versi di Rutilio Namaziano esprimono felicemente la consapevolezza della superiore capacità organizzativa di Roma: Fecisti patriam diversis gentibus unam, | profuit iniustis te dominante capi; | dumque offers victis proprii consortia iuris, | urbem fecisti, quod prius orbis erat (De red. suo I, 63-66). [44] Le armi sulla Colonna erano perlopiù realizzate in bronzo e inserite nelle mani dei combattenti. Queste appendici metalliche sono tutte perdute. [45] L'esatta caratterizzazione delle genti vinte ha una lunga tradizione nel mondo antico, a partire dall'arte del vicino Oriente: vd. E. La Rocca, cit., pp. 8 ss. [46] Vd. R. Brilliant, The Arch of Septimius Severus in the Roman Forum, in Memoirs of the American Academy in Rome 29, 1967; S. De Maria, Gli archi onorari di Roma e dell'Italia romana, Roma 1988, pp. 182-185, 305-307, n. 89; Lexicon Topographicum Urbis Romae, a cura di E.M. Steinby, vol. I, Roma 1993, pp. 103-105, s.v. Arcus: Septimius Severus (Forum) (R. Brilliant). [47] Rimangono una ventina di figure, cui vanno aggiunte alcune altre, note per via indiretta. Vd. J.M.C. Toynbee, The Hadrianic School. A Chapter in the History of Greek Art, Cambridge 1934, pp. 152-159; M. Cipollone, Le province dell'Hadrianeum. Un tema dell'ideologia imperiale romana, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli studi di Perugia, Studi classici 16, n.s. 2, 1978/1979, pp. 41-47; A.M. Pais, Il "podium" del tempio del Divo Adriano a Piazza di Pietra in Roma, Roma 1979; P. Liverani, cit., pp. 229-233; M. Sapelli, Provinciae fideles. Il fregio del tempio di Adriano in Campo Marzio, Milano 1999. [48] Sono perciò gli attributi elefantini che permettono di riconoscere genericamente l'Africa in una scultura, proveniente con buone probabilità da questo tempio, che fu reimpiegata in un monumento cinquecentesco a Scipione l'Africano sul Campidoglio, presso il Palazzo Senatorio. Vd. P. Liverani, cit., p. 230, nota 44. [49] Non va dimenticato l'antico uso di introdurre raffigurazioni delle gentes e delle città sconfitte nei cortei trionfali, secondo la testimonianza delle fonti, le quali possono fare riferimento a riproduzioni probabilmente pittoriche di luoghi reali come Livio (XXXVII, 59; XXXVIII, 43) e Plinio il Vecchio (Nat. hist. V, 36-37), oppure a statue o persone in carne e ossa come Virgilio (VIII, 722-728: è il trionfo di Augusto effigiato sullo scudo di Enea, ma non è escluso che possa esservi un riferimento alle sculture della porticus ad nationes). Cfr. P. Liverani, cit., p. 244 e nota 123. [50] Si può ricordare, almeno, l'emissione di una serie monetale simile a quella delle province coniata da Adriano. Cfr. M. Cipollone, cit., p. 45, con bibliografia precedente. [51] Vd. F. De Filippis, Il Palazzo Reale di Napoli, Napoli 1960, p. 67 e figura a p. 49. [52] Esso, forse di età domizianea, decora una delle facce di un plinto, appartenente a una colonna del praetorium di un grande accampamento lì situato. Vd. E. Demougeot, cit., p. 129 e nota 20; W. Selzer, Römische Steindenkmäler. Mainz in römischer Zeit, Mainz am Rhein 1988, p. 241, n. 263. [53] Scena CLIV. Vd. S. Settis et al., cit., pp. 543-546, tavv. 285-288. [54] Vd. B. Andreae, Imitazione ed originalità nei sarcofagi romani, in Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia. Rendiconti 41, 1968-1969, pp. 145-166, specificamente pp. 156-158; A. Giuliano (a cura di), Museo Nazionale Romano. Le sculture I, 8, Roma 1985, pp. 177-188, n. IV, 4 (L. Musso), soprattutto pp. 177-179. Sull'utilizzo dei barbari nella sfera funeraria vd. P. Zanker, Immagini come vincolo: il simbolismo politico augusteo nella sfera privata, in Id., Un'arte per l'impero, cit., pp. 79-91, specificamente pp. 85-86 (ediz. orig. Bilderzwang. Augustan political symbolism in the private sphere, in Image and Mystery in the Roman World [Festschrift J. Toynbee], Gloucester 1988, pp. 1-13). [55] Proviene da una tomba scoperta nel territorio di Cesena e datata fra la metà del II e gli inizi del III secolo d.C. Vd. M. Marini Calvani, R. Curina, E. Lippolis (a cura di), Aemilia. La cultura romana in Emilia Romagna dal III secolo a.C. all'età costantiniana (Catalogo della Mostra, Bologna 2000), Venezia 2000, p. 500, n. 179 (M.G. Maioli), con bibliografia.
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